La caduta del muro ha avuto anche ripercussioni negative.

Il 9 Novembre 1989 cade il muro di Berlino. A 25 anni di distanza si celebra questo avvenimento come qualcosa di straordinariamente positivo, una festa di liberazione nazionale e internazionale. Si riunisce la Germania, divisa tra i due blocchi di potere che combattevano la guerra fredda; si riunisce il mondo: la data diventa simbolo del crollo del mondo sovietico, o del socialismo reale, anche se l’ultimo effettivo respiro del gigante avverrà a cavallo tra il 1991 ed il 1992.

Il senno di poi storico, corroborato dall’emergere dei documenti resi inaccessibili dalla barriera della cortina di ferro, ha reso evidenti oltre ogni ragionevole dubbio  (“la storia la scrivono i vincitori”), gli orrori e gli errori commessi da un regime che ha ucciso o privato delle più elementari libertà la popolazione sottomessa al proprio governo.

Ma per una parte del mondo occidentale, ed in particolare per quelle enclave rosse come l’Emilia nella quale sono nato e cresciuto, il crollo del muro è coinciso con il crollo di un’ideale positivo verso cui tendere, della possibilità di un mondo migliore, di un’utopia paragonabile alla promessa di paradiso della religione cattolica.

In sostanza per i comunisti emiliani, o almeno per il mondo comunista che ho conosciuto, è come se il 9 Novembre 1989 dio fosse morto un’ennesima volta. Tutto questo non fu evidente nell’immediato, o almeno credo (ero troppo piccolo), ma lasciò una nostalgia e una malinconia che si accrebbero con il passare del tempo. La storia perse il suo scopo,  il suo essere un avanzamento continuo segnato dal progresso verso il sole dell’avvenire; si dipanò di fronte al credente comunista un immenso deserto immobile in cui sopravvivere, un eterno presente senza spinta ideale. Certo una gabbia dorata, dotata di tutti i comfort materiali che un’evoluta società capitalistica occidentale era ormai in grado di fornire diffusamente in quegli anni. Ma si erano perse le motivazioni alla rinuncia, al sacrificio, all’abnegazione al dovere che riunivano i militanti e la rendevano una comunità coesa e compatta. Le macerie del muro erano le macerie di un mondo che era crollato per sempre ancora prima di essere costruito.

L’essere comunista era sposare una visione del mondo, strutturata e compresa non attraverso i grandi classici o le opere teoriche; nessuno aveva letto Marx, al massimo riassunti, semplificazioni, lezioni in cui il pensiero del filosofo era stato predigerito e riconfezionato dal partito. Stessa cosa per Gramsci, Lenin, Togliatti, Stalin. Era un’aderire ad un insieme di valori che definivano un noi ed un loro, rafforzavano il gruppo e nell’opposizione all’altro lo rendevano più coeso.

E l’adesione era totale, indiscussa, tale da conformare completamente lo stile di vita. Mio nonno nel portafogli aveva i soldi, le tessere del partito, della coop, del sindacato, dell’Arci, la foto di Togliatti e di Stalin,  ma non quella di sua moglie o dei figli. Non si lasciava entrare il prete in casa per per permettergli di benedirla; si diffidava e si sospettava di chi andava a messa, se ne parlava sempre e comunque male, vi si intrattenevano rapporti ipocriti. Non ci si sposava in chiesa, ma in comune. Non si celebravano i funerali in chiesa, ma si andava al cimitero con la banda e le bandiere: del partito, dell’internazionale, del sindacato (chiaramente e solamente la CGIL).

I leader erano infallibili, nel momento in cui il conclave del congresso li nominava papi di questa religione atea, razionalista e laica, assumevano in sé stessi la Verità assoluta. Li si voleva toccare, la loro apparizione ai comizi o in tv era un momento di gioia accolto tra il giubilo ed il religioso silenzio. Non si poteva dissentire da loro, criticarli, nemmeno all’interno delle mura domestiche. L’ortodossia era uno dei principali valori, l’obbedienza alle direttive era ritenuta necessaria per avere la speranza di realizzare il mondo migliore.

Tutto lo scorrere della vita quotidiana era improntata alla “religione”: dopo il lavoro si andava al circolo o alla sezione; la Domenica mattina ci si alzava presto per distribuire l’Unità; una volta al mese si faceva la spessa “grossa” rigorosamente alla COOP e si disprezzava chi si riforniva al Conad; i week end erano scanditi dalle manifestazioni di piazza, dal porta a porta per “insegnare come si vota”, dai pellegrinaggi di testimonianza alle varie feste di partito sparse per la regione, dalle gite organizzate per i gemellaggi con le sezioni delle altre città.

Il lavoro era sacro, ma solo quello da dipendente: non era onorevole sfruttare il lavoro degli altri per arricchirsi, ci si trasformava nel “padrone”, nel nemico da combattere ed abbattere. Sul modello di Stakhanov, era glorioso ammazzarsi di fatica, sia fisica che intellettuale, fare a gara a chi lavora di più, non smettere fino a che non si completava il compito o dimostrarsi superiori concludendo più compiti degli altri. Ma non all’interno della propria professione, perché sarebbero stati straordinari conferiti al Capitale; bensì nel volontariato, nel fornire la propria opera gratis al partito, al sindacato, ai compagni: facendo i baristi al circolo, montando gli stand delle feste, prestando servizio come camerieri, cuochi o sfogline nelle cene di autofinanziamento. La nobiltà del singolo derivava dal sacrificio per gli altri.

Si riteneva che attraverso l’abnegazione, la disciplina, l’annullamento della propria soggettività nella volontà generale e nella causa comune si potesse finalmente raggiungere la città di dio e abbandonare le sofferenze del presente materiale e terreno. E l’immagine filtrata che proveniva da oltre cortina era lo specchio nel quale cercare le conferme dell’efficacia della propria condotta. Nell’est europeo c’era la piena occupazione, istruzione e case per tutti, un livellamento sociale che impediva la presenza di ricchi, delle loro proprietà e dei loro lussi che in Occidente venivano sbattuti in faccia ai proletari, stimolando in loro l’odio ma non l’invidia: nessun comunista avrebbe voluto possedere quei beni simbolo di moralità distorta e di infedeltà. Lo sport, i successi olimpici degli atleti sovietici fornivano una rappresentazione efficace e plastica dell’uomo nuovo, dell’oltreuomo comunista, superiore per forza ed etica all’atleta occidentale; non per doti naturali, ma per una trasformazione compiuta attraverso la dedizione, il sacrificio, l’attaccamento ai valori propri di una causa più elevata. Gli abitanti dell’Europa dell’est, ma soprattutto i russi, erano di default persone fantastiche, trattate con la reverenza ed il rispetto dovute a persone migliori, più evolute lungo il percorso di redenzione.

Si era amici e fratelli di persone lontane e sconosciute, si aveva fiducia reciproca preventiva, ci si riconosceva e ci si stimava tra gruppi di ignoti, perché si sapeva di avere la stessa visione della vita e di condividere un obiettivo comune relativo alla salvezza dell’umanità.

Con il crollo del muro tutto questo è gradualmente venuto meno. Si sono cercati succedanei, si è finta una trasformazione ed una maturità politica che lasciavano comunque l’amaro in bocca ai vecchi militanti. Si celebravano nuovi riti politici coerenti alla democrazia che celavano in ogni caso la nostalgia di un passato a cui non si era mai rinunciato, nella speranza che riemergesse in una qualche forma dopo un necessario periodo di corsa sotterranea e camuffata.

Ora non rimane nessuna spinta ideale, nessun obiettivo, nessun motivo per cui sacrificarsi, nessuna spinta al proprio miglioramento, alla trasformazione nel superuomo comunista. Anche l’ultimo ostacolo ad una condotta nichilista è stato rimosso, non rimane che abbandonarsi all’accidia priva di scopo.

 

Orgia in mezzo al campo, il pallone non conta.

Quando la vita si accanisce contro di te c’è poco da fare, bisogna arrendersi. Per rendere la mia esistenza ancora più deprecabile il destino ha voluto che alla tenera età di 11 anni fiorisse in me un malsano amore per i colori rossoblù del Bologna. Questo ha comportato 21 anni ad oggi di sofferenze inutili, patemi, vergogne, insulti (vivendo a Modena), danni permanenti al fegato. Tutto riassumibile nel celeberrimo detto latino. “mai na gioia”.

Un’esistenza scandita da retrocessioni, partite contro club improbabili, esultanze smodate per gol realizzati a squadre che sono scomparse dalla realtà e dalla memoria collettiva, trofei imbarazzanti come una Coppa Intertoto, anch’essa abolita per manifesto eccesso di grottesco.

Alcuni lampi ci sono stati: il privilegio di veder giocare e di poter gioire per i numeri di Roberto Baggio, ma soprattutto l’intima soddisfazione di potersi vantare di essere stati il club del grandissimo Michele Paramatti, il Beckenbauer delle periferie più disagiate.

Se per fare i sostenuti si vuole considerare il calcio come uno specchio della società, della politica, dell’economia, insomma del mondo in cui è inserito, bisogna ammettere che la crisi economica si è manifestata in tutto il suo splendore anche nelle sorti del Bologna. Sono anni che presidenti di una povertà che fa tenerezza si sono succeduti alla guida del club, regalandoci squadre con organici da commediaccia all’italiana e una suspense continua degna dei migliori maestri del brivido: ogni anno l’iscrizione al campionato era una telenovela che incollava migliaia di lettori ai giornali; le scadenze per il pagamento degli stipendi appassionavano più delle imprese sportive (anche perché queste ultime erano terribilmente latitanti); la corsa per evitare punti di penalizzazione occupava le cronache sostituendosi ad una normale e rassicurante routine di allenamenti e interviste ai giocatori.

Tutto questo ben di dio ci ha condotto alla fine del campionato scorso ad una ennesima retrocessione ed alla fantastica opportunità di confrontarci con squadre che hanno fatto la storia del grande gioco del calcio: Latina, Entella, Crotone, Lanciano, Cittadella, e tante altre che non ricordo perché il campionato di B vanta un roster di un centinaio di squadre, alcune sconosciute perfino a loro stesse. Tra i tanti privilegi concessi da questa nuova situazione ci sono i derby con i vicini di casa sciatti, che non vedevamo da tanto tempo e avremmo volentieri fatto a meno di rivedere.

Uno di questi è la sentitissima, dai modenesi, partita con il Modena. Il meraviglioso mondo dei media, che permettono di essere in ogni istante in ogni luogo, avvicinando culture, stili di vita, modi di sentire e insomma includendoci tutti in un unico villaggio globale, ha fatto si che Sky trasmettesse a breve distanza tra loro Modena-Bologna (Venerdi sera) e Real Madrid-Barcellona (Sabato pomeriggio) e che io per ragioni di cuore e di passione per il calcio le vedessi entrambe. Il contrasto tra di esse è stato forte e lacerante, difficilissimo pensare che fossero lo stesso sport.

Trova le differenze

  1. Come ci ha insegnato Leopardi, più che l’evento in sé quello che appassiona e coinvolge è l’attesa che si crea intorno ad esso. La tensione, il pensiero a quello che sarà, il parlarne prima, immaginarlo, costruirne una narrazione, sviscerarlo in ogni suo possibile aspetto. Così è stato per entrambe le partite: l’attesa mondiale per il clasico si è espletata in servizi sulle televisioni, sui grandi giornali nazionali, nelle pubblicità; l’attesa locale per il Derby si è vissuta nella sua nicchia nelle cronache locali e negli sfottò tra strada e social network. La maggior parte della popolazione non sapeva dell’esistenza di Modena-Bologna, ma chi era coinvolto ne ha vissuto l’avvicinamento con molto più pathos rispetto a quello dovuto a Real-Barça. Forse questo è l’unico punto a favore del Derby.
  2. La scenografia. Per Modena-Bologna i tifosi bolognesi, trascinati dall’entusiasmo per la nuova proprietà e dall’illusione di essere per una volta nella vita ricchi e potenti, hanno richiesto un numero di biglietti ben superiore ai 2400 concessi dalla questura modenese, ma nonostante le insistenze per ragioni di sicurezza si è deciso di non aumentarli. Anche i modenesi galvanizzati dalla ritrovata sfida con i cugini-rivali del capoluogo di regione hanno aumentato le presenze allo stadio rispetto al consueto, ma non tanto da riempirlo. Risultato: 15000 spettatori in uno stadio da 20000, record di presenze che non ha impedito però di presentarsi alle telecamere con evidenti buchi tra gli spalti. Questi, insieme ad un’illuminazione consona ad una squadra di provincia che gioca in Serie B, unite ad un intrattenimento prepartita da strapaesana, hanno conferito all’avvenimento una tetra atmosfera da baretto di paese, affollato e gaudente la sera del dì di festa ma pur sempre triste ed abbruttente. Discorso opposto per Real-Barcellona, stadio esaurito nei suoi 85 mila posti, luci sparate al massimo, speaker su di giri, inno della squadra di casa a massimo volume a caricare il pubblico. Atmosfera adatta ad un avvenimento mondiale.
  3. Le squadre. Alla lettura delle formazioni del Derby prende lo sconforto. Nonostante segua il calcio da parecchi anni la maggior parte dei giocatori mi è sconosciuta. Devo ammettere che della rosa del Bologna prima dell’estate ero conscio della presenza in vita di pochissimi calciatori, gli altri ho imparato  conoscerli purtroppo dalla lettura assidua delle ultime pagine dei giornali sportivi, che dovendo riempire le colonne di nulla si sono prodigati nel magnificare le doti di onesti lavoratori prestati al pallone provenienti da ignote periferie. Si vedano i Ceccarelli, i Maietta, i Laribi, i Giannone, i Troianiello, gente che si impara ad amare nell’indigenza ma che si spera di non rivedere più e di obliare completamente una volta che si sia usciti a riveder la luce. Dei giocatori del Modena non avevo mai sentito parlare, e spero di non doverci più avere a che fare da qui ad un anno. Nomi che sembrano provenire da uno sketch di Maccio Capatonda come Manfrin e Nizzetto, personaggi da romanzo come: Salifu, ghanese enorme dalla cresta color oro che corre come un indemoniato dietro il pallone; Rubin, terzino gobbo e smilzo ex Bologna, famoso per le sgroppate inconcludenti; Grancoche, bomber di categoria dall’espressione del viso perennemente perplessa e malinconica; Ferrari, atleta dal fisico da tossico che ricorda più un antennista che un calciatore. Discorso completamente opposto per il clasico: giocatori bellissimi e tiratissimi, che sembra una sfilata. Eleganti, famosi, ricchi, soprattutto fortissimi, sembra una partita alla play station con due squadre di All Stars.
  4. La partita. Modena-Bologna è terribile. 90 minuti e oltre di vuoto pneumatico. Nessun tiro in porta, due mezze occasioni da gol e due rigori negati. Tutto si risolve e si riassume in una mastodontica orgia a centrocampo, una sorta di gay bar dove si tira la palla in alto e sotto 20 persone si azzuffano in una piramide umana, in un’unione mistica dove ad un certo punto anche il pallone perde di importanza, e l’unica cosa che conta è sentirsi vivi grazie al contatto fisico violento con un altro essere umano. Cose così brutte non le avevo viste nemmeno ai calcetti tra amici o nelle partite tra amatori. Nessuno che controllasse la sfera o la mantenesse a terra, campanili random senza un perché e senza un disegno per il futuro, un vortice di schifo che riconcilia con chi considera il calcio uno sport da idioti. Gli allenatori a bordo campo erano perplessi e si interrogavano sulla loro vita, se non l’avessero sprecata fino ad allora, cosa avevano fatto di male per essere lì in quel momento, quale strada sbagliata, quali decisioni errate li avessero condotti in quel baratro di orrore. L’unico sussulto, l’espulsione di Troianiello dalla panchina: un mistero che rimarrà irrisolto; si pensa a delle offese al quarto uomo, ma bisogna sapere che il buon Gennaro è un miracolato dello sport, un energumeno tatuato che non è in grado di esprimersi in italiano corrente e che gira le squadre  di serie B di anno in anno grazie alla fama di porta fortuna che si è costruito negli anni; impossibile che abbia potuto pronunciare un’ingiuria comprensibile ad un orecchio umano non addestrato al suo linguaggio.  Pur seguendo la partita in piedi con l’adrenalina dell’evento, corroborata da quella di una scommessa campata per aria che mi ha tolto 5 euro necessari come non mai al mio sostentamento, la lotta per non addormentarsi è stata durissima e infruttuosa, risoltasi in un torpore interrotto saltuariamente da una sfilza di bestemmie. Del clasico che dire? IL CALCIO. Per citare Capello, che commentava la partita, “questi giocatori sanno tutto”. Palla a terra, azioni di una velocità impressionante, tocchi precisi, numeri, movimenti esatti, occasioni a ripetizione, emozioni continue. Tensione vera e motivata, con il tempo che volava e l’impossibilità di non essere attratti verso lo schermo stando sempre in punta di divano. Esperienza unica, uno di quei rari momenti che possono far riconsiderare l’assunto che sia impossibile divertirsi a questo mondo.
  5. Le conclusioni. Non essendoci stato un tiro in porta, il Derby è finito inesorabilmente 0-0. Si spegne la televisione con la consapevolezza di aver buttato nel cesso 2 ore della propria vita e più in generale una settimana passata a leggere febbrilmente notizie inventate, inutili o riciclate e a discutere con amici e conoscenti sulla superiorità della propria squadra e della propria città. Una consolazione però si trova sempre: il Bologna è primo in classifica in coabitazione con il Carpi, squadra della più infelice provincia modenese e in quanto tale invisa anch’essa ai tifosi del Modena. Il clasico è finito 3-1 per il Real, al termine di una partita fantastica che lascia la sensazione di aver assistito a qualcosa di bello e di utile, con il rammarico che sia finito e con la bella consapevolezza che almeno in un’altra occasione le due squadre si riaffronteranno entro la fine dell’anno calcistico. Questa consapevolezza provoca invece un dolore fisico e morale lancinante nel caso di Bologna e Modena, che purtroppo si ritroveranno al ritorno, si spera per l’ultima volta.

Per tirare le fila, il tifoso del Bologna sta vivendo un incubo vero, angosciante e terribile, invischiato come è nelle brutture di una terra straniera tra partite inguardabili e giocatori inventati sul momento. La speranza è che i nuovi proprietari siano davvero ricchi, e che finalmente uno dei due protagonisti di una bella partita sia il club rossoblù.

Rimanere nella casa dei genitori è razionale e giusto.

Il modello della famiglia patriarcale si è da poco dissolto in Italia. Ma nella percezione mentale che se ne ha pare distante secoli, un lontano puntino che si perde nei tempi oscuri del medioevo. Il diktat è l’indipendenza: a 18 anni fuori di casa! Vita autonoma, moderna, affrontando le difficoltà di petto perché solo con le responsabilità si cresce e si diventa veri uomini.

Il saper pagare le bollette, arredare una casa, curarne l’esterno, prepararsi i pasti e mangiarseli da solo rendono un individuo migliore di un altro, sono skills potenti, riti di iniziazione, marcatori di considerazione sociale.

Spesso l’indipendenza è forzata da cause fondate, come lo studio fuori sede, il lavoro trovato in un’altra città, la convivenza. Su questo nulla da dire, il cambiar casa diventa un malus che va  pesato sulla bilancia costi/benefici delle opportunità che si presentano nella vita.

Ma se non si ha un lavoro, o si lavora nella stessa città dei genitori, non si ha intenzione di convivere, qual è il senso logico di ricercare l’indipendenza a ogni costo? Questa necessità imposta, prettamente dovuta ad una pressione sociale esterna, come si giustifica? Perché affrontare un mare di difficoltà solamente per sentirsi riconosciuti come “maturi”?

Ventenni, trentenni, quarantenni si vergognano per il fatto di vivere ancora con i propri genitori. Quando sono costretti a rivelare questa ignobile verità vengono accolti con un sorrisino ironico e snobbati come handicappati sociali. Un’opera di discriminazione e di bullismo che segue gli stessi meccanismi di emarginazione di chi non segue le mode o non si adegua agli atteggiamenti del branco.

Una analisi dei pro e dei contro condotta in modo razionale evidenzia come non ci sia alcun vantaggio economico o di benessere nell’abbandono del nido, cioè che per dare di sé un’immagine positiva al cospetto della collettività si spendono inutilmente risorse materiali ed emotive. Un bisogno indotto e irragionevole di riconoscimento sociale fa deviare dalla linea retta dettata anche da un limitato senso logico.

Si può parlare dell’ennesimo velo distorcente posto dalla società moderna sugli occhi dell’uomo contemporaneo, che gli impedisce di avere una corretta visione di come stanno le cose realmente.

I vantaggi del vivere in casa dei genitori sono infatti lapalissiani, evidenti anche alle menti più semplici, se non fossero condizionate da una malevole propaganda:

  1. I costi sono ridottissimi: non si paga un mutuo e nemmeno un affitto.  I pochi soldi che entrano si possono spendere tutti per esigenze personali, senza dover fare la figura del barbone rifiutando inviti a cene, uscite, calcetti, aperitivi, serate in discoteca, vacanze.
  2. Le bollette sono a carico del capo famiglia e non si devono fare file per pagarle.
  3. Ci si può permettere un televisore grande e spesso l’abbonamento a Sky è incluso nel pacchetto famigliare
  4. Non si spendono soldi per la spesa, non si fa la spesa, ma al massimo si perde un minimo di tempo a fare l’elenco di quello che serve.
  5. Non bisogna pulire in casa o assumere qualcuno che lo faccia.
  6. C’è qualcuno che lava i panni, e soprattutto che li stira. Niente errori con i colori, nessun timore a dover andare in giro con i vestiti stropicciati con la speranza che si stirino da soli sul proprio corpo.
  7. Guadagno netto di tempo nel non doversi preparare da mangiare.
  8. Guadagno in salute grazie a pasti preparati a dovere e con un sapore accettabile, diversi dallo junk food o dai cibi maltrattati e tristi che la solitudine e la mancanza di voglia inducono ad ingurgitare quando si è da soli.
  9. Lenzuola che magicamente cambiano da sole al variare della stagione.
  10. Una cura e una manutenzione della casa anche nei più piccoli e minuziosi dettagli che sarebbe impossibile in una vita autonoma.

Sono 10 punti stesi velocemente, ma non sarebbe difficile trovarne altri. Ora: come si può pensare che l’obbligarsi ad una non necessaria (nel senso di non indotta da circostanze materiali esterne) indipendenza ed imparare ad espletare queste fastidiose e banali incombenze aiuti la crescita di un individuo e lo renda migliore?

Non si può negare che il vivere da soli abbia i propri vantaggi: autonomia rispetto alle regole imposte da chi in famiglia è gerarchicamente superiore, libertà di gestire orari e conduzione della vita domestica, possibilità di ospitare altre persone. Ma questi vantaggi, in confronto a quelli offerti da una vita in famiglia, giustificano una scelta così radicale?

Siamo nati per soffrire, ma una condotta di vita saggia dovrebbe cercare di eliminare quanto più possibile i disagi. Rimanete in casa!

Il sangue di Kent Brantly può salvare dall'ebola.

Lo scenario è ideale per un messia: per il mondo si prospettano tempi bui; morte, distruzione, catastrofe, tutto sfumato seppia. Il male prospera sia all’interno che all’esterno della Fortezza Occidente.

Dentro le mura imperversa la crisi economica e sociale, da tempo non si viveva una situazione del genere. Dopo gli sconvolgimenti dell’ultima guerra si era diffuso il benessere a macchia d’olio, niente sembrava potesse rovinare questa situazione idilliaca, il futuro non era minaccioso ma prometteva ancora progresso e felicità. Invece all’improvviso si è rotto qualcosa, il lavoro è venuto a mancare, di conseguenza i soldi per i consumi e la speranza per sé stessi e per i propri figli. I notabili della Cittadella si distaccano sempre di più dal volgo, si separano dal resto della società forti delle loro ricchezze, che aumentano esponenzialmente rispetto a quelle dei loro sottoposti. L’armonia è un lontano ricordo, ci si divide in fazioni e si lotta l’un contro l’altro, pur avendo un comune nemico: la Casta.

All’esterno crescono e prendono vigore due pericoli di tipo diverso.

Da una parte i barbari tagliagola, che fanno mattanza dei cittadini avventuratisi fuori dalle mura, e che minacciano di conquistare la Fortezza spinti dal loro Dio. Una minaccia nata in terre  produttrici di risorse fondamentali  per il funzionamento della vita economica della Città, un tempo controllate direttamente o attraverso collaboratori autoctoni, ma ora lasciate a loro stesse e degenerate in preda a manie revansciste.

Dall’altra un virus misterioso proveniente dal cuore delle foreste africane, passato all’uomo, per sortilegio, dalle scimmie e dai pipistrelli. Una malattia terribile e truculenta, che annienta il corpo dall’interno, lo piaga e lo fa scoppiare in una enorme bolla di sangue. Inizialmente non faceva paura, era corredo esotico di racconti su popolazioni lontane e mondi sconosciuti, ma poi l’esplosione di un’epidemia spaventosa ed i contatti sempre più intensi tra centro e periferia della contea l’hanno portata fino alle porte della Fortezza.

Per nascondere la povertà interna, e per proteggersi dai pericoli provenienti dall’esterno,  i governanti della Cittadella hanno deciso di sollevare i ponti levatoi e di intensificare i controlli verso chiunque bussasse alla porta. Vengono accolti con tutti gli onori i principi orientali e la ricca corte dell’imperatore rosso di Cina, portatori della liquidità necessaria ad un disidratato Occidente per poter sopravvivere. Tutti gli altri, le persone comuni, vengono sottoposte a rigidi controlli: sulla provenienza, sulla religione professata, sui loro ultimi spostamenti, per appurare che non siano affiliati ai barbari; sulla temperatura corporea, sulle condizioni del sangue e dell’apparato digerente, per accertare che non siano untori, bombe umane scagliate all’interno della Città.

Quello che era il pericolo che aveva avuto maggiore presa sul popolo, la paura dei barbari, è ancora confinato al di fuori delle mura, anche se le voci corrono e se ne sono prodotte di attentati probabili o sventati alle piazze più importanti della Città, corroborate dalle minacce di presa della Cattedrale diffuse dai tagliateste attraverso i mezzi di comunicazione. Invece ha già fatto breccia e oltrepassato le difese dell’Occidente la terribile malattia.

A importarla è stato Kent Brantly, medico in missione nelle terre sperdute d’oltremare e contagiato dal virus. Lo si è voluto curare all’interno dei bastioni, e questo ha provocato una brusca reazione nel popolo: chi sosteneva che lo si dovesse lasciar morire in quelle lande lontane, chi che non avrebbe mai dovuto uscire dalla Città per curare popolazioni inutili, povere e ignoranti, che quella era la sua giusta punizione e che la solidarietà e la compassione sono ormai disvalori non affini al verbo della produttività.

Deriso, vilipeso e bistrattato il povero missionario è riuscito però a guarire. E qui il suo secondo peccato grave: la società occidentale aveva ormai da tempo nella sua maggioranza abbandonato superstizioni ed idee metafisiche per tributare fiducia incondizionata alla scienza ed al progresso, mentre lui presentandosi alla folla all’uscita dal Lazzaretto ha ringraziato Dio per averlo salvato. La reazione è stata violenta, “ma come, noi lo salviamo grazie alla nostra tecnica e al nostro sapere, e lui ringrazia qualcuno che non esiste e che quindi non può aver fatto nulla per lui”. Si è preferito farlo finire al più presto nel dimenticatoio. Di questa esperienza rimaneva la certezza che la progredita civiltà della Fortezza poteva tranquillamente guarire gli ammalati e sconfiggere il virus, pericoloso solo tra le povere genti delle terre lontane.

Purtroppo sono arrivati altri contagiati, e sono cominciate le morti. Le cure promesse dalla cultura cittadina non sono ancora pronte per essere utilizzate in vasta scala, e soprattutto non sembrano funzionare nella totalità dei casi. Le conseguenze non si fanno attendere: il popolo precipita nell’irrazionalità, si diffonde il terrore e la caccia all’untore, si evitano i contatti e la frequentazione di luoghi affollati, si sospetta di chiunque. Un clima millenarista da fine del mondo, la paura dell’estinzione, la rassegnazione ad una morte certa ed inevitabile, il fatalismo.

Nel momento più buio, quando tutto sembra perduto, si illumina una speranza. Si scopre che forse il plasma del sangue delle persone guarite può aiutare gli ammalati, le prime evidenze lo confermano. Di colpo il povero medico Kent Brantly passa da paria emarginato a messia portatore della salvezza al proprio popolo. Maltrattato, respinto, umiliato, si prende la propria rivincita dalla croce e con il proprio sangue, che ha sconfitto il male, può redimere coloro che lo hanno disconosciuto.

“Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. Il destino della Fortezza passa per il corpo del giovane medico, svuotato dal plasma come un pozzo dal petrolio.

 

 

Il rapporto tra Scalfari e la Chiesa cattolica

Sono un lettore di Repubblica. Un po’ me ne vergogno. Sono consapevole del fatto che sia politicamente schierato; che nella sezione delle notizie estere segua il sensazionalismo mediatico e non curi la completezza del quadro (caso più recente, la protesta ad Hong Kong, scomparsa nel nulla dopo le paginate dei primi giorni); che le pagine di Cultura siano carenti, dettate da innamoramenti, mainstream, e pressioni editoriali; che le recensioni del film non siano affidate a critici professionisti ma a giornalisti reinventati.

Ma non ho trovato di meglio, e un quotidiano lo devo pur leggere.

In questi ultimi giorni c’è una cosa che mi da particolarmente fastidio, e che sto cercando di spiegare a me stesso: l’eccessiva attenzione data dal giornale al Sinodo sulla famiglia.

La Repubblica nasce come giornale legato alla sinistra, e nella sua storia editoriale ha proseguito su questo tracciato, tanto che negli ultimi anni sono state famose le sue battaglie contro Berlusconi (condizionate anche dalla guerra personale contro lo stesso soggetto dell’ editore De Benedetti) e di riflesso contro la CEI, in quel periodo guidata dall’ultraconservatore Ruini, che lo appoggiava cercando di manovrarlo come estremo baluardo a difesa dei valori tradizionali. Inoltre è considerato il giornale ufficioso del Pd, viste le pagine che dedica al partito ogni giorno, anche se in questo momento in opposizione a Renzi, perché inviso al padre/padrone Scalfari, che detta l’umore all’intera redazione.

Negli ultimi tempi, sempre ad opera di Scalfari, si nota una misteriosa apertura al mondo cattolico, un dialogo che si vuole di incontro tra laicità e Chiesa per giungere a valori comuni ed universali.

Comincia tutto con le interviste, gli scambi epistolari, l’amicizia, tra Scalfari ed il Cardinale Martini; alle firme di Repubblica viene aggiunto Vito Mancuso, teologo “liberale” che non accetta e mette in discussione alcuni dogmi tradizionali, con il ruolo di maître à penser di questa primavera religiosa nella quale si è imbarcata la testata; le messe cantate domenicali (gli editoriali di una pagina scritti da Scalfari ogni domenica) trattano sempre più spesso del suo rapporto con la fede, con la figura di Gesù, con i valori ed i dogmi della Chiesa. Ultimamente l’innamoramento nei confronti di Papa Francesco: l’agiografia quotidiana che lo descrive sul giornale come una figura rivoluzionaria, infallibile, eroe positivo al di là dei confini del reale, che con sforzo titanico ribalta dall’interno una Chiesa incancrenita.

Per ora ho formulato tre ipotesi che possano spiegare questa crisi mistica:

  1. Scalfari è vecchio e sente avvicinarsi la morte. In modo umanamente comprensibile sta stendendo un bilancio della propria vita e cerca di riconciliarsi con una realtà che ha combattuto ed avversato in precedenza. Nella religione ci sono molti elementi consolatori e di conforto, utili in momenti come questi, e il modo in cui il cardinal Martini ha affrontato la propria fine può essere d’esempio anche per chi si definisce laico. Trovare rifugio in una Chiesa riformata e maggiormente aperta alla modernità nel momento della dipartita è tollerabile, ma a livello personale; non c’è motivo di ammorbare l’intero giornale.
  2. Nel momento in cui la parte tradizionale e conservatrice  del mondo cattolico ha perso potere all’interno della Chiesa con l’uscita di scena di Ruini e di Bagnasco, e rappresentanza all’infuori di essa con il crollo elettorale e di credibilità di Berlusconi e del suo partito, si cerca di portare l’elettorato cattolico all’interno dell’alveo elettorale del Pd. Esaltare il portato di riformismo sociale, di solidarietà verso la parte debole della società, di accettazione delle trasformazioni dovute alla contemporaneità, può creare una sinergia tra potere religioso e centro-sinistra ed indirizzare le indicazioni di voto dell’apparato ecclesiastico verso lo schieramento politico di cui Repubblica è manifestazione non ufficiale.
  3. Il crollo delle ideologie Otto-novecentesche combinato al momento di difficoltà attuale, dovuto alla crisi economica, impongono di trovare nuove certezze cui aggrapparsi per evitare uno sfaldamento sociale della comunità civile. Con questo obiettivo Scalfari sta cercando di costruire un nuovo rifugio, riplasmando la religione cattolica per renderla più moderna ed accettabile alla maggioranza degli individui.

Qualunque sia il motivo reale tutto ciò si concretizza in una morbosa attenzione quotidiana sull’elaborazione della liceità della comunione ai divorziati.

Non nego che l’argomento possa essere interessante ed abbia una sua notevole portata storica e filosofica. Ma appunto dovrebbe essere affrontato solo dagli specialisti, nei loro ambiti di ricerca: storici della Chiesa, teologi, filosofi, storici della cultura, forse sociologi.

Certamente non è necessario piazzare ogni giorno un articolo, che occupa un quarto della prima pagina, sull’evoluzione del dibattito interno al Sinodo riguardo all’ammissibilità di chi si è risposato al sacramento dell’eucarestia. Per l’impatto che può avere sulla quotidianità di una nazione dove  il divorzio e le seconde (e terze) nozze sono metabolizzate ormai da tempo, dove non c’è mai la fila sui sagrati per entrare a messa, e dove la comunione spesso non è fatta nemmeno da chi alle funzioni ci va, meriterebbe una notizia a conclusione del Sinodo e un editoriale nella pagina dei commenti.

Altrimenti diamo pari peso al congresso dei cuochi per stabilire se nella carbonara l’uovo vada intero o si debba utilizzarne solo il tuorlo.

la lettura come gesto reazionario

Occupano le piazze. Ma non sono di sinistra. Né scalmanati di estrema destra. Non ci sono cortei, ma immobilismo. Niente risse, tafferugli, cariche, scontri con la polizia, lacrimogeni. Solo persone ferme, ritte in piedi, con un libro in mano.

Protestano, in silenzio, in favore della libertà d’espressione. Una manifestazione controintuitiva, ma con un fine nobile. Sembrano intellettuali posati ed impegnati, intenti a difendere il valore della cultura e dell’apertura mentale nei confronti dell’oscurantismo della censura governativa.

Una forza tranquilla in difesa della ragione e della razionalità contro l’oppressione del conservatorismo di stato.

Interessante, da approfondire, vediamo di saperne di più dal loro sito.

Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna

Sfugge il nesso. Come si combinano le due cose? Qual è il legame logico? Si possono difendere la pace nel mondo ed il diritto a schiacciare le zanzare? Si può vegliare per scongiurare la fame nel mondo e la tutela del decoro urbano? O per la sanità statale e la crema nei bomboloni?

Quindi? Non sono più radical chic impegnati in una nuova forma di protesta cool? Sono conservatori travestiti? La confusione sotto il cielo è grande.

I primi a tiltare sono i collettivi anarchici, i centri sociali e  l’estrema sinistra. C’è qualcuno che occupa la piazza con modalità differenti dalle loro. Reazione istintiva, da trattato di etologia, attacco belluino con botte, offese, scontri. Hanno invaso il territorio, sia fisico che culturale (la libertà d’espressione), bisogna ribadire con la forza la propria supremazia.

Il problema è reale, le forze del male si mimetizzano e si mischiano tra noi. Copiano i modi di fare del nemico, si appropriano dei loro modi di agire. Tolgono loro gli elementi di identità e di identificazione, ciò che unisce lo schieramento opposto. In questo modo creano spaesamento, rendono malvagio ciò che prima era buono. Un bianco e nero che avanza inesorabilmente cancellando i colori .

La lettura, da che mondo e mondo, è un gesto di emancipazione, serve e a fare crescere il singolo e la collettività, crea idee, fa cambiare opinioni e convincimenti, amplia gli orizzonti dell’individuo, permette la riflessione e stimola il ragionamento.

Cosa c’entra dunque la lettura con questi medievali conservatori difensori della  naturale superiorità della famiglia tradizionale, dell’amore etero, del diritto all’omofobia? Come può la lettura essere il simbolo di gente rinchiusa in sé stessa e isolata dal mondo da una campana culturale di piombo?

Ci hanno rubato la lettura ed i libri. Leggere sarà d’ora in poi un gesto reazionario. Qualcuno che legge in silenzio su una poltrona in libreria? Un omofobo! Persone immerse nella lettura sui mezzi pubblici? Biechi tradizionalisti, bigotti avanzi di chiesa. Le biblioteche? Covi di reazionari.

La lettura come gesto superato, fuori moda, legato ad un mondo retrogrado, di ignoranza,  ripudiato dai giovani perché non popolare e socialmente escludente. Per essere cosmopoliti, tolleranti, progressisti, moderni, mentalmente aperti, rivoluzionari, bisognerà radunarsi in piazza a bruciare i libri.

Non resta che aspettare il momento in cui balleranno lo ska dietro un furgone munito di Sound System per manifestare contro l’aborto.

la battaglia tra l'uomo ed il proprio fisico

Che il corpo umano sia una macchina imperfetta, piena di errori, obsoleta e degna di scomparire dalla faccia della terra è una realtà nota e ormai universalmente accettata.

Sono rari i momenti in cui operi decentemente, sia cioè in grado di produrre una performance fisica o intellettuale di buon livello senza provocare affaticamento, stanchezza, noia, imprecazioni, sensazione di aver realizzato un’impresa irripetibile.

Già nel proprio funzionamento, in sé, la fisiologia umana è soggetta ad errori, miseri fallimenti, malattie metaboliche inutili. Chiari segni che l’agglomerato umano si ostina ad ignorare permanendo in un parossistico attaccamento alla vita, condito dall’illusione autoindotta che sia irripetibile e meravigliosa. Tuttora mancano basi plausibili per questa affermazione, ma si sa che le credenze e le superstizioni sono dure a morire.

Se passiamo al livello più complesso delle interazioni con l’ambiente circostante il disastro è completo e totale. Mantenere in salute il proprio fisico è un’impresa disperata, oggettivamente impossibile. Ogni azione, ogni contatto con altri oggetti o organismi, ogni assunzione all’interno del proprio fisico di sostanze esogene è deleterio e dannoso. Bisognerebbe rimanere fermi il più possibile, totalmente immobili; ma si da il caso che anche questo faccia male.

La tragedia della condizione umana è esplicitata in termini ancora più lampanti ed autoevidenti nel momento in cui ci coglie un’illuminazione banale ma assai rivelatrice: più una cosa è piacevole ed appagante, peggiore è il suo impatto sulla nostra salute.

Il paradosso è esplicito: brevi momenti di gioia e felicità vengono pagati a caro prezzo in termini di salute e benessere sul breve e lungo periodo; mentre per mantenere una condizione omeostatica quasi decente, occorre soffrire in termini di noia, esercizio fisico, rinunce ascetiche ai pochissimi piaceri di una miserabile vita. Per riassumere il concetto in una frase:

Per non soffrire bisogna soffrire.

È un loop logico, non se ne può uscire, solo maledire ripetutamente ed in modo sclerotizzante la propria condizione.

Uno degli esempi più semplici ma più chiari di questo dramma che permea l’esistenza dell’uomo sulla terra è il cibo ed il rapporto con esso: una maledizione del demonio.

L’alimentazione ha un impatto devastante sul funzionamento del nostro corpo. Mangiare sano è la migliore medicina, mantiene in salute, migliora le performance, previene le malattie e gli scompensi metabolici che l’invecchiamento si porta dietro. Fantastico, ma mangiare sano fa schifo. Non c’è sapore, non c’è gioia, l’aspetto dei piatti è deprimente.

Il cibo è una delle poche gioie di questa tediosa esistenza, ma se è buono fa male. È una gratificazione, un premio che ci si concede, ma che premio è un petto di pollo scondito, un’insalata, un qualcosa di opaco cotto nel vapore? La malinconia passa dall’alimento all’anima, il grigiore permea la giornata del tristo salutista.

Una pantagruelica tavolata di cibi ricchi, gonfi di uova, affogati nell’unto, cosparsi di salse, fritti, colorati, gioiosi; colmi di zucchero, rivestiti di cioccolato e di croccanti biscotti al burro. Tutto questo è devastante, un’estasi di pochi minuti, se va bene di un’ora, ha effetti micidiali sui giorni, i mesi, gli anni successivi.

Se si mangia tanto in un pasto la pesantezza accompagna le ore successive: è impossibile ragionare e lavorare con un minimo di lucidità perché travolti dal Tir del sonno postprandiale; ogni attività fisica diventa uno sforzo titanico accompagnato da fiatone, pesantezza, rigurgiti di un cibo che al secondo e terzo passaggio nel cavo orale non è mai piacevole come la prima volta. Se è la cena ad essere abbondante a venire disturbato è il sonno, a detrimento di tutta la giornata successiva.

Inoltre ogni cosa buona è un’arma di distruzione di massa: grano, zucchero, latte, pizza cotta nel petrolio, prodotti della combustione delle grigliate, l’olio di frittura, sono alimenti addirittura cancerogeni che consumati sul lungo periodo sballano i valori del sangue e come tarli corrodono in uno stillicidio continuo e inarrestabile gli organi interni.

Più una cosa piace e più è pericolosa. Numerose sono le insidie, sotto forma di batteri ed agenti patogeni, che si nascondono nelle uova, nella carne cotta male, nel pesce crudo. Per non parlare delle allergie e delle intolleranze: quale dio può ricoprire chi mangia una cosa di suo gradimento di pustole, deformarlo per il gonfiore, obbligarlo a trascorrere un cordiale dopocena al bagno o peggio ancora al pronto soccorso?

Visto che l’uomo non sa rinunciare a sé stesso ma persevera nella sua alogica ed irrazionale conservazione e propagazione di specie, nascono da tale situazione delle derive che esprimono a pieno la decadenza della contemporaneità. Non so descrivere in altro modo stili di vita che ad uno sguardo alieno risultano incomprensibili e ridicoli: sostituti vegetali della carne e del latte, rinuncia alle carni rosse, diete sane e bilanciate prive di dolci, fino a degenerazioni religiose come il veganismo.

Un hardware ben progettato consentirebbe di soddisfare il proprio piacere in modo incessante e senza ripercussioni; uno delicatissimo, che richiede un’attenta manutenzione, che tiranneggia la volontà del suo proprietario obbligandolo a rinunce e all’incertezza delle reazioni nel proprio impatto con ciò che vi viene introdotto, è una palese truffa che va corretta al più presto.

Bisogna rompere le catene e ribellarsi a questa schiavitù. Intraprendere una battaglia contro il proprio corpo che può e deve terminare solamente con l’annientamento totale di uno dei due contendenti. Per questi motivi ho deciso di cambiare la mia vita ed assumere sulle mie spalle il peso dell’ingrato ruolo di avanguardia. Mangerò quello che voglio quando voglio, senza alcuna pietà per il mio fisico. Vedremo chi avrà la meglio, sicuramente l’odio tra di noi non è mai stato a livelli così alti. Indietro non si può tornare.

il perché delle decapitazioni

I Lego sono indubbiamente un ottimo gioco, formativo ed educativo. Affascina anche gli adulti, stimola la creatività; con il passare del tempo e la crescita delle espansioni ha permesso ai bambini persino una prima infarinatura nel campo della robotica e della programmazione.

Per la diffusione che hanno avuto, per l’influenza sulla società, per il numero di persone che ci ha giocato, per il tempo che ci ha giocato, i Lego sono indubbiamente un potente simbolo, nonché prodotto della cultura occidentale.

Sappiamo fin troppo bene come i terroristi musulmani, ed in particolare i nuovi fondamentalisti dell’IS, pur predicando un ritorno alle origini, ai tempi del Profeta, e rifiutando la modernità, si siano impossessati dei più moderni strumenti di comunicazione e dei simboli della contemporaneità occidentale.

Ne è esempio il sapiente uso dei video, dei messaggi via Twitter, delle finte analisi giornalistiche, dei trailer, delle tuniche arancioni usate per vestire gli ostaggi.  L’inizio della contaminazione non è stato dei più promettenti, si veda la foto di Osama Bin Laden con Bert dei Muppets ,

Influenza dei Muppet sulla cultura occidentale

ma indubbiamente la situazione è poi migliorata e gli influssi della nostra cultura sono sempre più evidenti, anche a causa del grande numero di europei di seconda generazione che fanno ritorno in Medio Oriente per combattere una battaglia che sentono loro.

Come è possibile quindi che non ci sia tra queste influenze anche quella dei Lego? Già dalle pose in cui si fanno fotografare i combattenti, l’ascendente è evidente: tengono infatti il petto in fuori, come gli omini gialli, e le braccia dritte con incastrate le armi nelle mani posizionate ad uncino.

Soldati dell'IS tengono le armi come i Lego

 

Purtroppo una delle caratteristiche più note degli omini della Lego è la possibilità di staccare loro la testa con estrema facilità. Questa si sfila agevolmente dal collo, e mantiene sul volto la stessa espressione dell’omino da vivo.

Sul piano educativo e dei significati la facilità di decapitazione toglie valore alla vita umana, il corpo diventa un oggetto scomponibile, privo di un’identità a tutto tondo ma plasmabile e ricomponibile attraverso i suoi pezzi. Si desensibilizza il singolo nei confronti del suo prossimo; quest’ultimo è un gioco usa e getta, non una persona con sentimenti ed una storia alle spalle che lo rende un individuo, prezioso in sé  ed in quanto diverso da tutti gli altri.

È facile vedere il nesso con l’uso smodato che i boia dell’IS fanno della decapitazione. Non si limitano a sgozzare gli ostaggi, ma staccano loro la testa e la pongono in bella mostra, rendendo ben visibile l’espressione che rimane sul volto delle vittime; una sinistra somiglianza ad una cesta piena di teste degli omini della Lego.

Va ricordato che la Lego è un’azienda danese, e non è la prima volta che la Danimarca ci crea guai nel conflitto culturale con l’estremismo islamico; alcuni anni fa le vignette satiriche su Maometto pubblicate da un quotidiano di quella nazione crearono una notevole dose di grattacapi e manifestazioni di dissenso verso tutto ciò che era espressione dell’invadente civiltà occidentale.

Penso sarebbe un bene boicottare l’acquisto dei prodotti dell’azienda danese, almeno fino a quando non si deciderà a saldare la testa degli omini al corpo. Questo sarebbe però solo un primo passo, perché i loro giochi nascondono altri pericoli: non manca molto, credo, a che i terroristi comincino a staccare le gambe dal busto delle vittime. E temo che se un giorno invadessero le nostre terre non esiterebbero a decostruire i nostri edifici scomponendoli in mattoni, per poi rimontarli, a causa della loro limitata fantasia, in case e moschee cubiche, forse addirittura prive di finestre e di tetto.

Diritto degli uomini all'inettitudine

Emma Watson, in un discorso alle Nazioni Unite in occasione del lancio della campagna “HeForShe”, ha affermato: “Non si parla spesso degli stereotipi di genere che imprigionano gli uomini ma so che esistono e quando se ne libereranno, come naturale conseguenza cambieranno le cose per le donne. Se gli uomini non dovranno essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno costrette ad essere remissive. Se gli uomini non dovranno esercitare il controllo, le donne non dovranno essere controllate. Uomini e donne dovrebbero entrambi sentirsi liberi di essere sensibili. Entrambi dovrebbero sentirsi liberi di essere forti”.

Quali sono questi stereotipi che imprigionano l’uomo da secoli, e lo condizionano nella propria attività al di là di quello che è il suo sentire e di quelli che sono i suoi veri desideri?

  1. L’obbligo della forza: ogni volta che c’è qualcosa di pesante da spostare, o trasportare, come scatoloni, confezioni, mobili, buste della spesa, rifiuti ingombranti, tocca all’uomo. Si suppone che essendo una attività di bruta manovalanza dove conta solo la superiore capacità fisica, sia il maschio a dover faticare. Ma ormai nessuno passa le giornate a cacciare nelle foreste, ed il rischio di perdere la propria battaglia contro il peso dell’oggetto è alto. Sotto questo punto di vista la parità dei sessi è più vicina di quanto si pensi.
  2. L’obbligo della cortesia cavalleresca: dare precedenza alla volontà della controparte femminile  è visto come un obbligo sociale inculcato fin dalla nascita. Offrirsi di fare qualcosa per o al posto di una donna, prestarsi ad aiutarla, rispettare la sua volontà quando si guarda qualcosa in televisione, si ascolta qualcosa alla radio, si programmano la giornata, le vacanze, le uscite, le cene; cedere il proprio posto o il proprio cibo sono azioni considerate naturali ma che riversano una insana luce di inferiorità sulla “femmina”. Per una reale parità dei sessi e per non indurre il maschio a ricercare disperatamente la solitudine o la compagnia dei soli amici maschi questa cortesia andrebbe abolita a favore di un rapporto schietto e sincero.
  3. L’obbligo di sapere come funzionano le cose. Dall’uomo si pretende che sia un appassionato di tecnica, che conosca tutto di alcuni argomenti come le automobili, gli elettrodomestici, l’elettricità, l’idraulica, e che sappia riparare gli oggetti che si rompono. Ma la specializzazione del mondo contemporaneo ha fatto sì che ci siano professionisti capaci, nel proprio settore di competenza, di aggiustare i danni, e che le persone lavorino per riuscire a pagarli, senza dover intervenire direttamente. Un uomo deve poter non sapere come è fatto e come funziona un motore, cosa sono i cavalli e la cilindrata, come si cambia una gomma, come si cambia una lampadina, come si aggiusta il rubinetto, o lo scarico del lavandino che non tira più, come sistemare il trasformatore o cambiare la spina di un apparecchio elettrico. Deve essere un diritto acquisito l’orrore per lo sporco di olio e grasso, per le ferramenta e per i megastore di bricolage.
  4. L’obbligo di essere “l’uomo di casa”: tenere in ordine e in salute l’infrastruttura materiale, l’orto ed il giardino. Non tutti sono entusiasti di devastarsi il fisico nel cementare, costruire con i mattoni, posare le piastrelle; o zappare, vangare,seminare, raccogliere i frutti della terra. Né di tagliare l’erba, rastrellare le foglie, potare le piante, innaffiare. Per alcuni questo è un incubo, peggiore forse di andare a teatro o vedere un balletto, quasi paragonabile a fare shopping.
  5. L’obbligo dell’aggressività. Essere maschi alfa e proteggere le donne del gruppo dalle avances e dalle offese degli elementi estranei. Fare a botte, mostrare i muscoli, aggredire verbalmente, guardare male, mettere a repentaglio la propria incolumità ed integrità fisica per il senso dell’onore fa parte di una mentalità superata; si può concedere ad un uomo nel 2000 di essere timido e nascondersi o chinare il capo di fronte alle offese ed all’aggressione di un estraneo, soprattutto se non rivolte direttamente al soggetto interessato.
  6. L’obbligo della munificenza: offrire da bere e da mangiare agli individui femminili in occasione di uscite comuni, essere prodighi di regali in occasioni di incontri o appuntamenti. Tirare fuori i soldi dalle tasche fa sempre male, un dolore psichico e fisico che può debilitare per diversi giorni; la consapevolezza della parità tra i sessi e della divisione del conto in parti uguali regala grande serenità ed aumenta la voglia di condivisione dei momenti mondani. Addirittura la gratificazione di essere spesati di tutto da una donna può portare ad un affetto illimitato ed a una riconoscenza imperitura verso la “femmina”.

Mi trovo quindi a rivendicare la parità tra i sessi, ma soprattutto il diritto dell’uomo all’inettitudine totale, sia sociale che pratica. Lo faccio in questo modesto blog, con la speranza di poter ribadire anche io questi concetti, un giorno, di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite.

L'uomo povero può essere il nuovo animale domestico.

La società si sta polarizzando, è un dato di fatto. Una percentuale sempre minore di persone detiene una percentuale sempre maggiore della ricchezza, sia a livello nazionale che globale. Aumenta la forbice tra ricchi e poveri, tra chi non sa come spendere i propri soldi e chi non ne ha quasi nemmeno per i bisogni fondamentali.

Si assiste per questo motivo a contrasti notevoli e stridenti: persone che fanno la fila alla mensa per i poveri, perché non sanno come procurarsi da mangiare; una classe media distrutta che vede andare in rovina il proprio tenore di vita ed è costretta nella vergogna a rinunce sui consumi; una classe elevata che arriva ad estremi parossistici di affetto verso il proprio animale domestico.

Esistono ristoranti, hotel, parrucchieri, negozi di vestiti per i cani; i gatti vengono viziati e coccolati con giochi, mobili, cibo raffinato, scatolette e croccantini costosissimi. Per loro si ha l’attenzione che si darebbe non ai figli, ma ai propri nipoti.

Intanto il 99% povero si arrabatta in una melma informe per cercare di sopravvivere, senza lavoro, senza motivazioni, senza voglia, guardando da lontano un mondo dorato ed irraggiungibile.

Ho riflettuto a lungo su questa nuova condizione umana, sule prospettive che mi si pongono davanti, sul da farsi per riuscire a scamparla in questa spietata jungla.

E ho notato che ho tutte le caratteristiche per poter fare l’animale domestico. Devo solo riuscire a propormi, e trovare qualcuno che voglia adottarmi.

Non so fare nulla, quindi in casa sarei completamente inutile; potrebbero insegnarmi a fare lavoretti e faccende, ma non voglio imparare. Non credo abbiate mai visto un cane od un gatto che lavano, stirano, cucinano, dipingono la casa, aggiustano i piccoli guasti idraulici, cambiano le lampadine.

Starei in casa, una presenza fissa e costante, ma non ingombrante. Darei il vantaggio di scoraggiare eventuali ladri, rispondere al telefono ed ai venditori, dare al padrone di casa la certezza di non essere da solo quando torna dal lavoro. Non sarei invadente, non farei feste come un cane, me ne starei per i fatti miei come un gatto, e mi farei vedere solamente se cercato, o se avessi bisogno di qualcosa (farmi lavare una maglia, farmi comprare qualcosa che mi serve, farmi dare un po’ di soldi per esigenze varie).

Il padrone potrebbe parlarmi se ne ha voglia, di quello che vuole (chiaramente ho l’obbligo di cercare di essere preparato sugli argomenti di suo interesse), o farsi bastare la mia muta compagnia; oppure utilizzarmi come intrattenimento, una specie di giullare medievale, pronto a far ridere con gag e battute.

Non avrei grandi esigenze, mi basta mangiare 3 volte al giorno, avere un televisore grande sul quale vedere la tv satellitare, un po’ di soldi per comprare libri, portatile, smartphone. Non so nemmeno vestirmi da solo, quindi sarei completamente succube del gusto estetico di chi si prende cura di me. Accetto volentieri cibi raffinati ed hotel, posso entrare in tutti i locali, non sporco particolarmente e sono disordinato sì, ma ritrovo sempre tutto.

Sono autonomo, posso portarmi da solo dal veterinario, o dal medico, so guidare e posso fare da autista; inoltre posso fare la spesa, scaldare vivande (con l’aiuto di un forno), andare in posta ed in banca.

In un mondo giusto e socialdemocratico avrei una badante, ma in questo medioevo contemporaneo occorre diventare una via di mezzo tra un cicisbeo ed un giullare, per potere sopravvivere.

Posso dare tanto (affetto no, fatico a trovare qualcosa di buono da dare…) (tanta presenza?), in cambio chiedo solo di essere mantenuto.