Il 9 Novembre 1989 cade il muro di Berlino. A 25 anni di distanza si celebra questo avvenimento come qualcosa di straordinariamente positivo, una festa di liberazione nazionale e internazionale. Si riunisce la Germania, divisa tra i due blocchi di potere che combattevano la guerra fredda; si riunisce il mondo: la data diventa simbolo del crollo del mondo sovietico, o del socialismo reale, anche se l’ultimo effettivo respiro del gigante avverrà a cavallo tra il 1991 ed il 1992.
Il senno di poi storico, corroborato dall’emergere dei documenti resi inaccessibili dalla barriera della cortina di ferro, ha reso evidenti oltre ogni ragionevole dubbio (“la storia la scrivono i vincitori”), gli orrori e gli errori commessi da un regime che ha ucciso o privato delle più elementari libertà la popolazione sottomessa al proprio governo.
Ma per una parte del mondo occidentale, ed in particolare per quelle enclave rosse come l’Emilia nella quale sono nato e cresciuto, il crollo del muro è coinciso con il crollo di un’ideale positivo verso cui tendere, della possibilità di un mondo migliore, di un’utopia paragonabile alla promessa di paradiso della religione cattolica.
In sostanza per i comunisti emiliani, o almeno per il mondo comunista che ho conosciuto, è come se il 9 Novembre 1989 dio fosse morto un’ennesima volta. Tutto questo non fu evidente nell’immediato, o almeno credo (ero troppo piccolo), ma lasciò una nostalgia e una malinconia che si accrebbero con il passare del tempo. La storia perse il suo scopo, il suo essere un avanzamento continuo segnato dal progresso verso il sole dell’avvenire; si dipanò di fronte al credente comunista un immenso deserto immobile in cui sopravvivere, un eterno presente senza spinta ideale. Certo una gabbia dorata, dotata di tutti i comfort materiali che un’evoluta società capitalistica occidentale era ormai in grado di fornire diffusamente in quegli anni. Ma si erano perse le motivazioni alla rinuncia, al sacrificio, all’abnegazione al dovere che riunivano i militanti e la rendevano una comunità coesa e compatta. Le macerie del muro erano le macerie di un mondo che era crollato per sempre ancora prima di essere costruito.
L’essere comunista era sposare una visione del mondo, strutturata e compresa non attraverso i grandi classici o le opere teoriche; nessuno aveva letto Marx, al massimo riassunti, semplificazioni, lezioni in cui il pensiero del filosofo era stato predigerito e riconfezionato dal partito. Stessa cosa per Gramsci, Lenin, Togliatti, Stalin. Era un’aderire ad un insieme di valori che definivano un noi ed un loro, rafforzavano il gruppo e nell’opposizione all’altro lo rendevano più coeso.
E l’adesione era totale, indiscussa, tale da conformare completamente lo stile di vita. Mio nonno nel portafogli aveva i soldi, le tessere del partito, della coop, del sindacato, dell’Arci, la foto di Togliatti e di Stalin, ma non quella di sua moglie o dei figli. Non si lasciava entrare il prete in casa per per permettergli di benedirla; si diffidava e si sospettava di chi andava a messa, se ne parlava sempre e comunque male, vi si intrattenevano rapporti ipocriti. Non ci si sposava in chiesa, ma in comune. Non si celebravano i funerali in chiesa, ma si andava al cimitero con la banda e le bandiere: del partito, dell’internazionale, del sindacato (chiaramente e solamente la CGIL).
I leader erano infallibili, nel momento in cui il conclave del congresso li nominava papi di questa religione atea, razionalista e laica, assumevano in sé stessi la Verità assoluta. Li si voleva toccare, la loro apparizione ai comizi o in tv era un momento di gioia accolto tra il giubilo ed il religioso silenzio. Non si poteva dissentire da loro, criticarli, nemmeno all’interno delle mura domestiche. L’ortodossia era uno dei principali valori, l’obbedienza alle direttive era ritenuta necessaria per avere la speranza di realizzare il mondo migliore.
Tutto lo scorrere della vita quotidiana era improntata alla “religione”: dopo il lavoro si andava al circolo o alla sezione; la Domenica mattina ci si alzava presto per distribuire l’Unità; una volta al mese si faceva la spessa “grossa” rigorosamente alla COOP e si disprezzava chi si riforniva al Conad; i week end erano scanditi dalle manifestazioni di piazza, dal porta a porta per “insegnare come si vota”, dai pellegrinaggi di testimonianza alle varie feste di partito sparse per la regione, dalle gite organizzate per i gemellaggi con le sezioni delle altre città.
Il lavoro era sacro, ma solo quello da dipendente: non era onorevole sfruttare il lavoro degli altri per arricchirsi, ci si trasformava nel “padrone”, nel nemico da combattere ed abbattere. Sul modello di Stakhanov, era glorioso ammazzarsi di fatica, sia fisica che intellettuale, fare a gara a chi lavora di più, non smettere fino a che non si completava il compito o dimostrarsi superiori concludendo più compiti degli altri. Ma non all’interno della propria professione, perché sarebbero stati straordinari conferiti al Capitale; bensì nel volontariato, nel fornire la propria opera gratis al partito, al sindacato, ai compagni: facendo i baristi al circolo, montando gli stand delle feste, prestando servizio come camerieri, cuochi o sfogline nelle cene di autofinanziamento. La nobiltà del singolo derivava dal sacrificio per gli altri.
Si riteneva che attraverso l’abnegazione, la disciplina, l’annullamento della propria soggettività nella volontà generale e nella causa comune si potesse finalmente raggiungere la città di dio e abbandonare le sofferenze del presente materiale e terreno. E l’immagine filtrata che proveniva da oltre cortina era lo specchio nel quale cercare le conferme dell’efficacia della propria condotta. Nell’est europeo c’era la piena occupazione, istruzione e case per tutti, un livellamento sociale che impediva la presenza di ricchi, delle loro proprietà e dei loro lussi che in Occidente venivano sbattuti in faccia ai proletari, stimolando in loro l’odio ma non l’invidia: nessun comunista avrebbe voluto possedere quei beni simbolo di moralità distorta e di infedeltà. Lo sport, i successi olimpici degli atleti sovietici fornivano una rappresentazione efficace e plastica dell’uomo nuovo, dell’oltreuomo comunista, superiore per forza ed etica all’atleta occidentale; non per doti naturali, ma per una trasformazione compiuta attraverso la dedizione, il sacrificio, l’attaccamento ai valori propri di una causa più elevata. Gli abitanti dell’Europa dell’est, ma soprattutto i russi, erano di default persone fantastiche, trattate con la reverenza ed il rispetto dovute a persone migliori, più evolute lungo il percorso di redenzione.
Si era amici e fratelli di persone lontane e sconosciute, si aveva fiducia reciproca preventiva, ci si riconosceva e ci si stimava tra gruppi di ignoti, perché si sapeva di avere la stessa visione della vita e di condividere un obiettivo comune relativo alla salvezza dell’umanità.
Con il crollo del muro tutto questo è gradualmente venuto meno. Si sono cercati succedanei, si è finta una trasformazione ed una maturità politica che lasciavano comunque l’amaro in bocca ai vecchi militanti. Si celebravano nuovi riti politici coerenti alla democrazia che celavano in ogni caso la nostalgia di un passato a cui non si era mai rinunciato, nella speranza che riemergesse in una qualche forma dopo un necessario periodo di corsa sotterranea e camuffata.
Ora non rimane nessuna spinta ideale, nessun obiettivo, nessun motivo per cui sacrificarsi, nessuna spinta al proprio miglioramento, alla trasformazione nel superuomo comunista. Anche l’ultimo ostacolo ad una condotta nichilista è stato rimosso, non rimane che abbandonarsi all’accidia priva di scopo.